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Responsabilità nel contagio da COVID-19

Ing. Sabrina Soffietto

Responsabilità nel contagio da COVID-19

La qualificazione del COVID-19 nell’ambito degli infortuni sul lavoro ha sollevato accesi dibattiti nel mondo della sicurezza sul lavoro, con riferimento all’attuazione delle misure di prevenzione e alle specifiche responsabilità del datore di lavoro e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione. L’I.N.A.I.L, con le Circolari 13/2020 e 22/2020, ha chiarito che i casi da infezione da COVID-19 possono rientrare nell’ambito degli infortuni sul lavoro.
La tutela trova il suo fondamento nella circolare n.74 dell’INAIL, risalente al 1995, con la quale le affezioni morbose determinate da agenti virali vengono equiparate a quelle determinate da causa violenta e ricadono, pertanto, nello stesso regime di tutela assicurativa.

Inoltre, con la circolare 13/2020, l’INAIL individua gli ambiti di tutela dei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus avvenuti in occasione di lavoro, precisando che per il riconoscimento della tutela assicurativa dell’infezione in ambiti lavorativi diversi da quello sanitario, dovrà essere accertato preliminarmente il rispetto delle norme antinfortunistiche previste dal T.U. 81/2008.
I destinatari di tale tutela sono tutti i lavoratori dipendenti e assimilati, così come previsto dal d.p.r. 1124 del 1965.

Tale tutela assicurativa, nel caso di “contatto professionale” con l’agente infettante, ha aperto la strada a numerosi dubbi e dibattiti sulla possibile (conseguente) imputazione de plano della responsabilità civile e penale in capo al datore di lavoro per la violazione delle cautele antinfortunistiche.

Con la circolare 22/2020 l’Istituto ha cercato di dirimere la questione controversa precisando che il riconoscimento dell’origine professionale del contatto si basa “…su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possono essere stati causa del contagio…” e che “…non possono, perciò, confondersi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative“.

Pertanto, l’aver inserito il COVID-19 nell’ambito degli infortuni sul lavoro non costituisce, di per sé e necessariamente, inadempimento in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro; tale responsabilità datoriale, sia civile che penale, è da accertare con la specifica criteriologia di esclusivo appannaggio del T.U. 81/2008.

A tal proposito, in caso di contagio di lavoratori che svolgono attività lavorativa diversa da quella sanitaria, la stessa circolare 22/2020 chiarisce che qualora il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, sarà necessario un rigoroso accertamento medico-legale che tenga conto di tutti gli aspetti: epidemiologici, clinici, anamnestici e circostanziali.

In particolare, trattandosi di attività lavorativa diversa da quella sanitaria, rispetto alla quale il nesso causale è riconosciuto ope legis, appare evidente che nel primo caso, andrà accertata l’attuazione da parte del datore di lavoro del “…complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno” di cui all’art. 2 comma 1 lett. n e la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa” di cui nell’art. 28 co. 2 lettera a T.U. 81/2008.

Devono essere valutati tutti i rischi derivanti dall’attività lavorativa o tutti i rischi in assoluto? L’interpello n.11/ 2016 chiarisce che il datore di lavoro “debba valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del paese in cui la prestazione lavorativa dovrebbe essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti rischi generici aggravati, legati alla situazione geopolitica del paese e alle condizioni sanitaria del contesto geografico di riferimento non considerate astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa“.

Questo chiarimento, che si applica per gli ambienti di lavoro che operano al di fuori del contesto nazionale e in contesti geopolitici particolarmente a rischio, ben si presta ad essere applicato anche alla situazione pandemica attuale: il datore di lavoro, coadiuvato dal servizio di prevenzione e protezione, è tenuto ad aggiornare il documento di valutazione dei rischi, avendo cura di considerare, tra i rischi biologici, anche il COVID19.

Allo stato attuale, poiché le conoscenze del virus SARS COV 2 sono carenti, è fondamentale che le misure di prevenzione devono risultare dal rigoroso rispetto delle linee guida (aggiornate quotidianamente) fornite dagli Enti preposti.

Ciò, tuttavia, potrebbe non essere sufficiente ad assolvere il datore di lavoro dal reato di omissione di valutazione dei rischi, così come previsto dall’articolo 55 co. 2 del T.U. 81/2008.

Infatti, l’art. 15 co. 1 lett. c, del T.U. prevede che, qualora non fosse possibile l’eliminazione dei rischi, dovrà esserne garantita quanto meno la riduzione al minimo, in ragione alle evidenze scientifiche disponibili e al progresso tecnico, incluse le c.d.modalità di lavoro “agile”, come da art. 15 del T.U. 81/2008 co.1, lett.g.

Ad ogni modo, tenuto conto che le conoscenze di questo particolare rischio biologico determinato da SARS-COV 2 non sono, allo stato dell’arte, scientificamente consolidate e sono in continuo aggiornamento, il datore di lavoro dovrà assicurare ai lavoratori, con l’ausilio dei principali attori del servizio di prevenzione e protezione (responsabile di prevenzione e protezione, medico Competente, R.L.S.), di aver messo in atto tutte le misure di prevenzione collettiva e individuale, tenendo conto del continuo sviluppo delle conoscenze della scienza e della tecnica, sulla scia dei principi di diritto richiamati nella nota sentenza della Cassazione a S.U. n. 38343/2014, riguardante la vicenda “Thyssen-Krupp”, ricorrendo anche alla cd. modalità di lavoro “agile”, prevista ancor prima dall’art. 15 del T.U. 81/2008 all’art 15 comma 1 lett g: “La limitazione al minimo del numero dei lavoratori che sono, o che possono essere, esposti al rischio” e che, pertanto, il datore di lavoro deve privilegiare ope lege quanto indicato nel testo unico della sicurezza.”


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