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Licenziamento verbale

Avv. Laura Lieggi

Licenziamento verbale

Preambolo

Nella previsione di un lavoratore vittima di un licenziamento verbale che chiede di riconoscere l’inefficacia di tale forma di recesso datoriale e la rispettiva disciplina sanzionatoria.

Le norme

Le norme di riferimento sono l’art. 2 della legge 604/1966, come novellato dall’art. 2 della legge 108/1990 e dall’art. 2 l. 98/12 , l’art. 18 l. 300/70 (c.d. Statuto dei lavoratori)

La questione

Il caso riguarda una collaboratrice che lavorava con contratto di inserimento della durata di 18 mesi (d.lgs n. 276/03 attuativo della l. 30/03 c.d. Legge-Biagi, contratto abrogato dalla l. 92/2012) in un centro estetico e, in seguito alla sua scadenza, proseguiva la sua collaborazione mantenendo l’identica qualifica e mansione, trasformando ope legis il suo rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, come da normativa di riferimento che vietava la proroga oltre il limite massimo di durata consentito (18 mesi). In seguito accadeva che la stessa, giunta sul posto di lavoro per riprendere la propria attività dopo il periodo di ferie concordato, apprendeva del cambio della denominazione sociale del centro estetico e veniva licenziata verbalmente ed allontanata senza ricevere alcuna motivazione, pertanto senza alcun atto formale scritto. Al Centro per l’impiego (Cpi) scopriva che il recesso del suo rapporto di lavoro era stato ivi comunicato (modello UNILav) già molti giorni prima, ovvero durante il periodo di ferie, nonché motivato con la cessazione dell’attività commerciale, difatti mai avvenuta, essendo mutato semplicemente il nome della società ma non la proprietà e nemmeno la direzione della stessa.
Tale ipotesi rientra nella fattispecie legislativa definita “assetto proprietario sostanzialmente coincidente” che si verifica allorquando tra un’impresa o una società che si estingue (e dunque licenza apparentemente in modo legittimo) ed una di nuova costituzione vi siano elementi di continuità quali, come nel caso di specie, il comune nucleo proprietario, vale a dire la conservazione dello stesso assetto proprietario o compagine sociale, ossia chi concretamente finanzia l’impresa (da distinguere da chi invece la gestisce, c.d. management). Si tratta di un modus operandi spesso utilizzato dalle imprese per licenziare o per ridurre il personale e, in taluni casi, per riassumerlo a condizioni più vantaggiose, che aggira fraudolentemente la legge.
Per quanto attiene l’esercizio incorretto del diritto di recesso dell’imprenditore, rientrante nella più generale ricostruzione dottrinale del “licenziamento ad nutum” (o libera recedibilità) contrario alla normativa giuslavorista per gran parte delle categorie dei lavoratori, va annoverato che tale diritto richiede il rispetto delle formalità procedurali previste dalla legge e in primis quella della comunicazione per iscritto, a pena di inefficacia, la cui ragione sta nel rendere inequivocabilmente edotto il lavoratore della fine del rapporto di lavoro e dei motivi specifici che lo hanno determinato, affinché possa meglio esercitare il proprio diritto alla difesa. In altri termini, vi è un principio garantista che permea tutta la suddetta procedura, fatta di una serie di atti legali posti in modo consequenziale, dove il vizio “a monte” anche di uno solo rende nullo il licenziamento.

Procedimento

Il Tribunale di Bari sez. lavoro, adito con ricorso ai sensi della legge Fornero, ha dichiarato “inefficace” il licenziamento comminato ed ha condannato il centro estetico a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro nonché a corrisponderle un’indennità risarcitoria commisurata “all’ultima retribuzione globale di fatto” computata dal giorno del licenziamento illegittimo sino a quello dell’effettiva reintegrazione, come sancito dall’art. 18 l. 300/1970 (la retribuzione globale corrisponde a quella che “il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, ad eccezione dei compensi di cui non sia certa la percezione e quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione ed aventi normalmente carattere eventuale, occasionale o eccezionale”, Corte di Cassazione sent. n. 15006/2015).


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